Il capitello
Il capitello di Sant’Antonio abate in località Gazzoli
Lungo le strade delle nostre contrade è tutt’altro che insolito imbattersi in croci o edicole votive, note, queste, nel linguaggio locale come “capitelli”. Si tratta indubbiamente di un fenomeno innanzitutto legato alla devozione popolare, ma che si spiega anche con esigenze meno spirituali, quali una funzione segnaletica, o dettate da ancestrali superstizioni per cui un incrocio, un bivio sarebbero stati siti contaminati dalla presenza del “maligno”. In tal caso alla croce, all’edicola venivano riconosciuti poteri apotropaici, ossia capaci di esorcizzare, rendendola innocua, la presenza del male.
Presumibilmente queste motivazioni, magari con maggior attenzione all’aspetto devozionale, spinsero Eliseo Schena a far edificare nell’anno 1927 questo capitello, dedicato a Sant’Antonio abate, che ora, opportunamente restaurato e dotato di nuova icona, torna a vegliare con rinnovate energie sulla gente di Gazzoli.
La scelta da parte di Eliseo Schena di dedicare la sua edicola a Sanl’Antonio abate, in particolare, non dovette essere estranea, magari, all’onomastica familiare, ma soprattutto alla circostanza che al Santo era intitolata la parrocchia di Costermano, alla quale in quegli anni era pure soggetta la comunità della contrada di Gazzoli.
Quello per Sant’Antonio abate era un culto assai diffuso e si doveva soprattutto al bisogno in una società rurale, prevalentemente contrassegnata dalla pratica dell’agricoltura e dell’allevamento, di contare su uno speciale protettore nei confronti degli animali domestici, che indubbiamente rappresentavano una risorsa fondamentale della parca economia familiare.
Il culto comunque, come spesso accade, affonda le proprie origini in fedi, colture diverse, anche estranee allo stesso Cristianesimo. Così in Sant’Antonio abate si riconosce l’eredità di una divinità celtica, Lug che assicurava il ritorno della primavera e la resurrezione dell’uomo, il cui attributo era il cinghiale. I guerrieri, in particolare, l’onoravano portando sull’elmo una piccola statua dell’animale e persino spalmando sui capelli una poltiglia di gesso in un’acconciatura che voleva richiamare la cotenna del cinghiale.
Quando i celti vennero evangelizzati, il posto del dio Lug venne preso da Sant’Antonio Abate, ma per allontanare i riferimenti con l’antica divinità pagana, l’attributo del cinghiale venne modificato in quello di un maialino, accovacciato ai piedi del Santo.
La presenza dell’animale venne quindi giustificata da una serie di leggende popolari che ebbero per protagonista il nostro maialino, ma non sempre la sua immagine bastò a cancellare i legami col mondo precristiano, tant’è che nel santuario della Madonna del
Soccorso a Marciaga in un affresco di primo Seicento ad opera di Paolo Ligozzi, raffigurante Sant’Antonio abate, ai piedi del Santo campeggia il grugno zannuto
di un cinghiale. C’è però anche da dire che nel tempo la presenza del maialino confortava i fedeli nella protezione del Santo per i loro animali domestici e, in particolare, prorio per il maiale, la cui importanza nell’alimentazione nel passato delle nostre campagne è arcinota.
Nell’iconografia tradizionale quella del maialino è comunque una figura complementare e il santo è ritratto innanzitutto in veste da eremita, con stretto nella mano destra il caratteristico bastone a tau e nella sinistra il campanaccio, che richiama il potere apotropaico al suo suono attribuito e, forse, anche l’usanza dei monaci Antoniani di Parigi che nel Medioevo facevano liberamente pascolare sul suolo pubblico i loro maiali, contraddistinti dalla presenza di un campanellino legato al collo. Non di rado al posto del campanaccio il Santo mostra sul palmo una fiammella in omaggio alla leggenda per la quale avrebbe sottratto il fuoco dall’inferno per donarlo agli uomini, ma pure alla designazione di “fuoco di Sant’Antonio” dell’herper zoster e dell’ergotismo, malattie a sollievo delle cui sofferenze Sant’Antonio veniva invocato.
Giuliano Sala, Gazzoli 2 luglio 2014
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